Lo chiamano il pittore vagabondo.

   Avendo compiuto il giro del mondo per ben sette volte e potendo vantare amici e collezionisti in ogni parte del globo, va da sè che la definizione risulti più che calzante. Tuttavia, osservando i suoi quadri e conversando con lui, me ne è venuta in mente un'altra, che non contraddice la prima ma rende, mi pare, più giustizia alla sua opera ed alla sua vita e sarebbe: 'pittore senza paura'.

  A Gian Maria è piaciuta. Ha avallato l'intuizione nata anche da uno studio che la sua opera mi ha stimolato a compiere prima che avessi la possibilità di conoscerlo meglio.

  La semplicità e l'immediatezza dei soggetti dei quadri di Gian Maria, paradossalmente, rendono difficile qualsiasi 'discorso' intorno alla sua arte. Balocchi, giocattoli e ninnoli dai colori sgargianti affastellati insieme come in un magazzino all'aria aperta. Barche in mezzo al mare che portano a spasso intere città, chiese, statue e monumenti, in viaggio verso una meta sconosciuta. Marine, mazzi di fiori e cesti di frutta, gatti, uomini mascherati e donne velate. Tutto, nell'arte di Gian Maria ci parla di gioco, di leggerezza ed immediatezza. Tutto nelle sue opere ci comunica un forte senso di vitalità ed innocenza. In breve, stentavo a credere  che potesse esistere, oggigiorno, un artista talmente sicuro di sè, della vita e della sua vita, da riunire senza timore e senza pudore, in un sol colpo, tutto ciò che la nostra società occidentale teme maggiormente.

  La paura di non essere presi sul serio, per esempio, che porta parecchi artisti a compiere pesanti, talvolta assurde divagazioni sulla propria arte per sfornare, alla fine, prodotti sterili e tristi, mentali e lontani dalla vita come dalla gente, fedeli a quel puritanesimo ed a quell'estetica austera secondo cui solamente ciò che è insipido, senza odore e senza colore può definirsi serio. Lo studioso inglese David Batchelor ha analizzato a fondo le ragioni di quella che lui definisce 'cromofobia' dell'età moderna, un'epoca in cui lluomo è stato esiliato lontano dalla sua anima colorata. Un'epoca in cui il colore ci minaccia di regressione ed infantilismo. A cosa  associamo i colori brillanti? Ai giocattoli dei bambini, al regno di Oz. Colori  e giocattoli. La sfida di Gian Maria, appunto. Sfida ad una società che ha ucciso il bambino interiore ed ha castrato la capacità di gioire e di sentire, in poche parole, di vivere.

  Il filosofo francese Gaston Bachelard ci viene in aiuto quando, a proposito dell'opera di Marc Chagall, definisce il paradiso come  un mondo di colori belli: 'Nei sogni primordiali di ogni sognatore del Paradiso' afferma Bachelard, 'i bei colori portano la pace fra tutti gli esseri del mondo. Tutte le creature sono pure perchè belle; vivono tutte insieme e i pesci nuotano nell'aria, l'asino alato si accompagna agli uccelli, il blu dell'universo sfiora tutti gli esseri' A ogni pittore il suo paradiso. Per chi sa rendere l'armonia dei colori, l'amicizia del mondo è raffigurabile: il paradiso è innanzi tutto un bel quadro'. Così scrive Bachelard, e sembra che scriva per Gian Maria. Anche lui infatti ha saputo creare il suo paradiso ed ha saputo dargli dignità di realtà. Non ha paura Gian Maria di affermare il suo diritto di sognare il proprio paradiso. E facendo così ce ne regala un pezzetto. 'La vita è un gioco, ma la gente non lo capisce' afferma Gian Maria, 'anche l'arte è un gioco, un bel gioco. L'importante è guardare alle cose in positivo. Bisogna pensare positivo, altrimenti non si riesce a fare niente'.

Lella Antinozzi